Per me è una di quelle date che vogliono dire subito qualcosa. Ognuno ha le sue. Io appena la leggo, la sento, la scrivo, la associo a una bruttissima mattina di neve di undici anni fa, quando di ritorno da Genova ho appreso che Fabrizio De André era morto. Ogni 11 gennaio, da allora, è diventato un’occasione di ricordo, anche se di Fabrizio, per fortuna, ci si ricorda molto e quasi per tutto l’anno (troppe volte anche a sproposito). Ma l’11 gennaio, in particolare, è il giorno degli omaggi, delle serate ricordo, degli eventi.
Attorno al suo nome da undici anni si muove un universo di cover band, cantautori, compagnie teatrali, guitti e saltimbanchi. Il nome di Fabrizio richiama sempre pubblico, una serata omaggio, in qualunque parte d’Italia si svolga, avrà sempre uno stuolo di “orfani” pronti a precipitarsi, a volte imbattendosi in nuovi talenti, altre volte finendo per uscire disgustati, arrabbiati, delusi. Perché il popolo degli orfani, che è incontenibile, caparbio nel continuare un dialogo mai interrotto, quello che riempie i teatri non solo di persone, ma di una tensione emotiva che raramente si percepisce in eventi pubblici è anche molto esigente: chiede che di Fabrizio e su Fabrizio si ragioni sempre con rispetto, capacità, intelligenza. È un popolo che aspetta al varco chiunque si affacci sul palcoscenico a parlare o cantare Fabrizio, che ascolta con trepidazione e poi inonda di applausi solo chi li merita (nell’anno appena passato è toccato, e a buona ragione, a Cristiano).
È un popolo che è come se avesse la consapevolezza di avere un privilegio, di averlo avuto ma in fondo di averlo tuttora. Quello di farsi accompagnare per un tratto della propria vita da Fabrizio, dalla sua intelligenza, dal suo spessore. È l’orgoglio dei deandreiani. L’intelligenza che Fabrizio ha trasfuso nella sua opera (e nella sua vita) è già di per sé un antidoto alla banalità.
Tuttavia, il rischio di trovarsi in una serata sbagliata c’è. Anche a me è capitato. Per non rischiare, almeno per chi vive a Milano e dintorni, una soluzione c’è. Ed è quella degli autoconvocati di Piazza del Duomo. Una tradizione spontanea che si ripete da 11 anni. Nel 2004 c’era anche Giorgio, che ne scriveva così. Non penso che l’atmosfera sia cambiata.
Sono convinto poi che per rendere omaggio a De Andrè si deve alzare lo sguardo al di là di chi si limita a riproporre, rielaborare, reinterpretare (quando non scimmiottare) il repertorio del maestro e guardare anche a chi, in Italia, ne ha assorbito al meglio la lezione, coniugandola con altre, trasformandola in una ricetta originale e innovativa. I Sulutumana, per esempio, sono molto deandreiani per tanti aspetti: per l’attenzione alle radici e agli strumenti della tradizione, per l’amore per le storie marginali, nel loro caso quelle della provincia, per la cura certosina negli arrangiamenti e nei testi. Se non li conoscete, vi invito a scoprirli. Io intanto metto qui una loro versione della Cattiva strada.
E adesso aspettiamo il 12 gennaio.