“Lei è un uomo che conosce il valore della memoria, altrimenti non ci saremmo mai incontrati“, scrive il Corsaro a Gabriele Palma. Lui, che ha combattuto tutta la vita contro il virus dell’oblio, da cui questo Paese sembra farsi contagiare con grandissima facilità.
Ecco, L’uomo che verrà di Giorgio Diritti è un film che consiglio a chi crede nel valore della memoria. A chi ci crede davvero e dunque è disponibile ad affrontare anche il dolore, lo strazio, la crudeltà che spesso la memoria comporta. In questa sua capacità di usare la potenza delle immagini per farsi memoria L’Uomo che verrà è, a mio modestissimo parere, un capolavoro. Perché ricerca in maniera quasi ossessiva l’aderenza ai fatti (soprattutto ai racconti di chi c’era e ha custodito il ricordo), senza rinunciare a essere una narrazione, a essere un film e non un documentario, a raccontare una storia dentro il fondale della Storia. Il risultato è il ritratto di una società contadina scomparsa, di una guerra crudele, di una strage vigliacca e imperdonabile. Un ritratto che mette in scena carnefici e vittime, senza esitazioni. Che rifugge dalla retorica, anche da quella resistenziale. Ma stando ben alla larga dai revisionismi.
C’è stata una piccola polemica, nei giorni scorsi, seguita ad alcune parole di Diritti che non sono piaciute all’Anpi. Una polemica un po’ oziosa, perché basata su dichiarazioni del regista e non sul contenuto del film. Quel che conta è il film. Come giustamente fa notare Teresa Vergalli, staffetta di Reggio Emilia, i partigiani raccontati da Diritti sono «eroi loro malgrado. La loro lotta è statacaratterizzata dalla spontaneità, dal bisogno di libertà, giustizia econtro ogni guerra. Poi saranno stati fatti pure degli errori. C’èstata anche troppa retorica. Ma non bisogna mai perdere di vista ilfatto che la Resistenza sia stata l’unica strada giusta da seguire». Diritti evita la retorica, racconta anche lo sbandamento, la disorganizzazione, gli errori dei “ribelli”. Ma non dà scampo ai carnefici, ne misura l’abisso di efferatezza, non distingue tra chi comanda e chi esegue gli ordini (vecchio refrain dei nazisti portati sul banco degli imputati). Mostra che non è vero che non esistevano alternative, per chi partecipava alle rappresaglie. L’alternativa esiste sempre, dipende dal prezzo che si è disposti a pagare.
Vedere questo film è un esercizio di memoria anche in questo senso. Aiuta a ricordare che è giusto perseguire chi si è reso responsabile di questi massacri, anche 65 anni dopo, anche se ad andare sotto processo è un vecchio di 90 anni. Non ci può essere remissione per chi ha sparato con il mitra su donne e bambini, ha lasciato i feriti sotto i mucchi di cadaveri.
Gli amici dell’Anpi sapranno riconoscere il valore di questo racconto per immagini, ne sono certo. Sapranno riconoscerne la potenza evocativa, che non ha bisogno di retorica. E spero che lo “adottino”, lo divulghino. Mi auguro anche che sia proiettato nelle scuole.
Insomma ho amato questo film, anche se mi ha fatto male. E se non facesse male non sarebbe un capolavoro.